Mark Knopfler – True Love Will Never Fade

Avevo 14 anni quando esplose il fenomeno rock dei Dire Straits, almeno in Italia. In Inghilterra erano già sulla cresta dell’onda da qualche anno, ma in Italia il grande successo da hit parade per i Dire Straits arrivò prima con i singoli Romeo & Juliet e Tunnel of Love (da Making Movies) e poi con Private Investigation e la lunghissima Telegraph Road da Love Over Gold. Non solo nella loro musica, ma anche nel loro look i Dire Straits avevano qualcosa che li distingueva dal resto della massa cantante che cominciava a far largo uso di videoclip per i loro brani: erano lontanissimi dalle cotonature pop dei gruppi come Duran Duran o Spandau Ballet, e dagli eccessi dei gruppi di glam rock come i Boston e gli Scorpion, in gran voga in quel periodo; apparivano anche meno “puliti” dei supergruppi come i Chicago, gli Eagles o i Supertramp; la loro musica non era enfatica e barocca come quella di Pink Floyd, degli Yes o dei Genesis: trasudavano rock dei bassifondi delle metropoli inglesi, trasandati il giusto da non sembrare drogati ma tutto sommato dalla faccia pulita.
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Quello che le donne non dicono

Nel dedicare a tutte le donne una bellissima canzone (anche se scritta da un uomo), vorrei augurare a tutti papà del mondo di provare la gioia della nascita di una figlia femmina, non perché tale gioia sia diversa da quella per un maschietto, ma perché avranno modo nella loro vita di apprezzare ancora di più quello che sono in grado di fare le donne, e per questo rispettarle tutte un po’ di più. Dubito seriamente che noi uomini, nonostante ci facciamo spesso belli della nostra forza, potremmo mai sopportare quello che una donna deve affrontare durante un parto.

John Mayer – Belief

Prima premessa: la cosa meravigliosa dei negozi di dischi è che per conoscerne il contenuto non è strettamente necessario leggere i risvolti di copertina come si fa per un libro: spesso il contenuto dei dischi si può ascoltare da apposite macchine appesi ai muri, o nei casi più raffinati, vicino alle casse viene esposto il disco che sta passando nel lettore in quel momento; in ogni caso, è sempre possibile chiedere ai commessi.
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Peter Gabriel – Father Son

Il 2010 per me è stato un anno molto particolare e tra le cose che mi sono accadute, due sono state particolarmente significative: la nascita di mio figlio e, dopo 3 mesi, la morte improvvisa di mio padre. In entrambi i casi le emozioni sono state fortissime, come potete ben immaginare, e non saprei nemmeno dire quale dei due eventi mi abbia segnato di più. A rendere le emozioni più forti ci sono state le coincidenze meteorologiche di una splendida giornata, calda di fine estate per la nascita di mio figlio, e freddissima di una settimana invernale di tramontana per la morte di mio padre.
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King Crimson – Starless

Quando iniziai a suonare la chitarra, precisamente la chitarra elettrica, presi la cosa abbastanza sul serio anche se non avevo nessuno con cui suonare: non potendomi permettere delle lezioni da insegnanti veri iniziai a studiare da autodidatta con tutto quello che trovavo. Agli inizi degli anni ’90 Internet era appannaggio solo dei laboratori di informatica e telecomunicazioni degli atenei, e l’unica fonte di istruzione per autodidatti, in qualsiasi campo dello scibile umano, era il passaparola o in mancanza di qualcuno in grado di passare parola, le riviste specializzate in edicola; per questo motivo, insieme ad un metodo di chitarra e ai dischi che mio padre non mi ha mai fatto mancare, cominciai a leggere riviste come “Guitar Club” e “Chitarre”, dove si parlava di chitarre meravigliose, di effetti e amplificatori e soprattutto dove venivano pubblicati articoli su chitarristi più o meno famosi con le intavolature di loro brani salienti. In quel periodo ero in trip per i grandi chitarristi rock blues come Eric Clapton e Jeff Back, con deviazioni sul rock più duro di Led Zeppelin e Deep Purple. Poi avevo i dischi dei Genesis, degli Yes e dei primi Marillion solo da ascoltare, in quanto pressoché insuonabili da soli.
Queste riviste ogni tanto mi permettevano di scoprire nuovi orizzonti, con gruppi scomparsi e quasi dimenticati, e altri ancora attivi ma difficilmente rintracciabili sulle radio e nei programmi televisivi. Tra i tanti suggerimenti che uscivano da quelle pagine, un chitarrista in particolare ha solleticato la mia curiosità per numeri e numeri: Robert Fripp. A chi non ha molta dimestichezza con la musica degli anni ’70, questo nome non dirà nulla, forse il nome King Crimson potrebbe essere loro già più familiare.
Dagli articoli presenti in quelle riviste sbucavano foto di un gentleman con occhialetti rotondi che difficilmente si sarebbero adattati alle immagini di rocker col torso villoso bene in vista come Robert Plant o Richard Blackmore, e un sorriso simpatico; dagli articoli, inoltre, si intuiva che questo Robert Fripp non era esattamente un musicista come lo intendevo io: si parlava di concerti eseguiti dietro dei separè per non mostrarsi al pubblico, di scuole di meditazione e cose che non riuscivo nemmeno a legare alla parola rock. Ricordavo però il nome del gruppo King Crimson come appartenente ad un generico insieme di rock cosidetto “progressive”, la cui definizione mi è tuttora quasi oscura. Insomma mettevo questo gruppo nello stesso calderone di Genesis, Yes, Gentle Giant e così via. Sempre leggendo le riviste si riusciva anche a ricostruire una discografia minima ed essenziale di ciascun personaggio che veniva presentato.
Leggendo quindi un articolo su Robert Fripp, ricavai una discografia da comprare, prima o poi, ed essendo di formazione tipicamente scolastica, partii dal primo disco dei King Crimson, “In the court of the Crimson King”.
Il sospetto di qualcosa di strano mi era venuto guardando la copertina (il disegno del viso di un uomo che grida), ma l’ascolto delle prime note fu un vero shock. L’incipit di “21st Century Schizoid Man” è qualcosa di terrificante per chi si aspetta una musichetta sullo stile di “Trespass” dei Genesis, più o meno dello stesso periodo. La voce distorta e un ritmo aggressivo sono un pugno nello stomaco, che poi viene mitigato da tutto il resto, splendido, del disco. E anche il modo di suonare la chitarra di Fripp è qualcosa di straniante, soprattutto per chi è abituato al più ad un giro di blues. Devo dire la verità, dopo quell’ascolto non diedi seguito all’esplorazione della discografia dei King Crimson e li riposi nel dimenticatoio, anche se ogni tanto dalle riviste specializzate mi si riproponeva il faccione tranquillo di Robert Fripp, che non lasciava certo presagire il ritmo ansiogeno di quell’incipit.
Ritrovai i King Crimson qualche anno più tardi su una bancarella dell’usato dove trovai quasi tutta la discografia a pochi euro: comprai per intero, tirando anche sul prezzo, quel pacchetto che comprendeva sia dischi più recenti come “Beat” e “Discipline” che il seguito di quella discografia così brutalmente interrotta: “In The Wake of Poseidon”, “Lark’s Tongues in Aspic” che tradotto dovrebbe significare più o meno “Lingue di allodola in gelatina”, tanto per capire che tipo dovrebbe essere stato Fripp, “Island”, “Lizard” dalla copertina bellissima e, soprattutto, “Red”.
Copertina nera, ritratto dei tre elementi del gruppo con luce radente, e solo cinque brani: il brano che dà il titolo all’album è un pezzo strumentale tiratissimo, ma tutto l’album è un cambio di marcia rispetto al passato fatto di mellotron, sintetizzatori, violini e atmosfere rarefatte (tranne “21st Century Schizoid Man”, ovviamente). Questo è rock cattivo, e la copertina scura dà una perfetta indicazione del contenuto.
Ma la perla dell’album, a mio avviso, è “Starless”. Va fatta attenzione, nello scegliere i dischi dei King Crimson, perché il titolo di un brano potrebbe essere confuso con quello di un album, oppure perché si potrebbe trovare un brano dallo stesso titolo in album molto diversi e pubblicati anche a dieci anni di distanza (è il caso delle varie “Lark’s Tongues in Aspic” le cui parti sono presenti sia nell’omonimo album che in “Three of a perfect pair”, pubblicato dopo dieci anni); “Starless” è un brano di “Red”, mentre “Starless and Bible Black”, oltreché un verso della canzone “Starless” stessa, è il titolo dell’album precedente a “Red”.
“Starless”, dicevo: un brano all’inizio etereo e sognante, in cui al basso e alla voce di John Wetton fanno da sottofondo caldo e morbido una melodia creata dal sustain della chitarra di Fripp e dal tappeto di sintetizzatori e archi già ben noti ai fan dai primi dischi. La melodia si ripete per tre strofe, poi inizia il delirio: una chitarra lancinante che ripete una nota per qualche minuto, poi cresce di tono, si ripete ancora per qualche minuto e poi sale ancora, nel crescendo di basso e della batteria di Bill Bruford fino ad esplodere nel finale monumentale con la melodia iniziale tirata a mille e con il supporto del sax soprano di Mel Collins. L’ultimo minuto del brano è un orgasmo di ritmo e melodia, chiudendo un vero paradigma di rock progressive, tanto da sembra la conclusione di un viaggio nello spazio, dove si è stati cullati dalla melodia iniziale e dopo aver attraversato il campo di asteroidi della parte centrale del brano. Ovviamente anche “Starless”, come tutti gli altri brani dei King Crimson in cui è protagonista la chitarra di Fripp, è praticamente impossibile da suonare, ma quando l’ho scoperto, per fortuna, avevo già appeso la chitarra al chiodo.
Dopo “Red” i King Crimson cambiarono pelle mille altre volte, Fripp divenne sempre più confusionario nella ricerca della sua identità chitarristica, ma all’inizio degli anni ’80 il Re Cremisi risorse nel suo nuovo corpo, più solido e meno artificiale, fatto dal basso di Tony Levin e dalla voce e la chitarra di Adrian Belew; Bruford continuò ad accompagnare Fripp e nelle sporadiche riapparizioni del Re Cremisi è sempre lì a percuotere le sue pelli. Ancora oggi la formazione è in perpetuo mutamento, ruotando sui perni fissi Fripp e Bruford, e ogni tanto sfornano dischi da titoli e dalle melodie criptiche e scure.
Quella che segue è una rara ripresa dell’esecuzione dal vivo ad una televisione francese.
Parte prima

Parte seconda

Spandau Ballet – Through The Barricades

Sentiamo dire spesso che l’adolescenza è il periodo più bello della vita, di cui spesso abbiamo ricordi meravigliosi, tanto da rendere pessimo qualsiasi altro ricordo, a confronto. Qualche responsabilità di ciò è attribuibile anche a molti film chiamati, appunto, adolescenziali, che raccontano storie di ragazzi per lo più belli, felici, allegri e spensierati, intenti a divertirsi e a correre dietro alle coetanee altrettanto belle, felici, allegre e spensierate.

Balle.

Non è per tutti così, anzi: da quel poco che ho potuto vedere dalla mia adolescenza e da quella di alcuni di quelli che mi stavano intorno, l’adolescenza si è rivelata essere un periodo terribile: affrontare lo specchio la mattina e già lì, al primo gesto della giornata, sentirsi inadeguati rispetto alla metà fortunata degli adolescenti descritti all’inizio, è una cosa che o fortifica le spalle rendendoti insensibile alle tormente che la vita ti farà soffiare inevitabilmente contro, o ti stronca per sempre iniettandoti come un virus un senso di inadeguatezza perpetua. Per non parlare poi delle paure che fino a qualche mese prima nemmeno immaginavamo potessero esistere, mentre affrontavamo battaglie coi soldatini Atlantic o costruivamo mondi con i mattoncini Lego; oppure dell’effetto disastroso di uno sguardo mancato o di vedere la ragazza che ci piaceva da impazzire andare a braccetto col figo della scuola, solitamente più grande di te, più bello di te, più disinvolto di te, e via aggiungendo aggettivi a piacere ma rigorosamente “più di te”. Ancora adesso, parlando di quei tempi, preferisco usare la prima persona plurale, non per una correttezza formale nello scrivere o un plurale majestatis del tutto ingiustificato, quanto piuttosto per un sentirsi gruppo insieme a tanti altri sfigati come me, per affrontare meglio quell’orribile periodo della vita.
Non sono un sociologo né ho particolari nozioni di psicologia, per cui parlerò della mia adolescenza, e di quanto poco ho potuto apprezzarla. Facciamola corta: ero brutto, piuttosto impacciato e considerato il secchione della classe solo per la mia attitudine a fare i calcoli velocemente e senza penna; portavo degli occhiali con teglie in triplo fondo pirex al posto delle lenti; essendo di peluria scura (nonché caduca, scoprirò poi) e ancora poco avvezzo al rasoio, avevo sempre un paio di baffi sotto il naso abbastanza ben percettibile. Il confronto con i “più di te” sopra citati era impietoso, sempre, in ogni situazione e in ogni momento: e non c’era possibilità che l’essere il primo della classe potesse in qualche modo farmi risalire la china, se non nei brevissimi istanti che seguivano la distribuzione della versione di latino o del problema di matematica nei compiti in classe, salvo poi far svanire il magico effetto al termine degli stessi compiti in classe.
Ma c’era una cosa che mi faceva sentire pari o addirittura superiore (ovviamente senza un valido motivo per esserlo, ma bastava l’impressione) a tutti quei “più di te”, e che nessuno avrebbe potuto togliermi: la musica. Come tutti gli altri, compresi i “più di te”, sentivo la stessa musica, amavo gli stessi gruppi musicali, leggevo gli stessi testi oppure cercavo di imparare gli stessi accordi. A risentirla ora, quella musica farcita di suoni elettronici primordiali e così ormai demodé, mi viene un misto di tenerezza e ribrezzo non facilmente descrivibile, perché il bel ricordo di questa o quella canzone inevitabilmente sono legati a momenti di confronto inevitabilmente in perdita con quei “più di te”, ma rievocano anche i momenti di riscatto interiore, insieme al piacere quasi fisico che si provava ascoltandone alcune.
Un breve excursus storico, diciamo così: circa a metà degli anni ottanta, due erano i main stream dei gusti adolescenziali: i Duran Duran, apprezzati principalmente dalle ragazze per via dell’avvenenza quasi femminea dei tre quinti della band: Simon Le Bon, John Taylor e Nick Rhodes (gli altri due, Andy e Roger Taylor, nessuno li ha mai cagati in realtà, e quando sono stati sostituiti da Warren Cuccurullo e Nile Rodgers nessuno se n’è nemmeno accorto); e gli Spandau Ballet, dal seguito meno variegato e leggermente più snob: eh sì, perché gran parte dei fan dei Duran Duran appartenevano al movimento modaiolo dei paninari, tamarri ante litteram stereotipati dalle scarpe fino al berretto: zatterone Timberland, jeans Levi’s 501 strappati sulle ginocchia, maglie a scelta ma inevitabilmente sovrastata da piumino Moncler, possibilmente con braccia rimovibili. Gli Spandau Ballet, invece, si presentavano più sobri (eccetto forse per i ciuffi del cantante), eleganti, pettinati e senza mascara negli occhi; inoltre facevano un pop più morbido e di più facile ascolto dei Duran Duran, e i loro seguaci erano assolutamente anonimi.
Ovviamente fui sfigato anche nella scelta del gruppo preferito: c’è da dire che seguivo più i gruppi dei dischi lasciatimi in eredità di mio fratello, quindi ero indietro di una buona decina di anni ascoltando i primi Genesis e i Pink Floyd, ma nella scelta del gruppo di cui parlare con i miei coetanei scelsi i meno seguiti, cioè gli Spandau Ballet: che ovviamente vendevano meno, erano meno ascoltati dalle ragazze e di cui si parlava meno. Insomma mi ero auto emarginato.
Però avvenne un miracolo: mentre il paninaro impazzava al ritmo di “Wild Boys”, gli Spandau Ballet tirarono fuori il loro pezzo migliore; era il 1986, e “Through The Barricades” fece presto a diventare l’hit single del momento, scalzando il brano dei Duran Duran dai vertici delle classifiche. Non che non abbiano fatto altri brani validi (come ad esempio “I’ll Fly For You” o “Gold”, oppure “Only When You Leave”), ma con questo fecero proprio il botto: e il botto fu tanto forte che dopo l’album che includeva il brano, non riuscirono più a riprendersi: solo una recentissima reunion li ha riportati alla ribalta, facendo ironizzare molti commentatori sulla forma fisica di Tony Hadley, il loro cantante: dal duo de “Il Ruggito del Coniglio”, a riguardo, ho sentito la battuta migliore: “Gli Spandau Ballet ora sono in quattro, il quinto se l’è mangiato il cantante…”
Il brano è indubbiamente gradevole, una ballata melodica con un arpeggio di chitarra pulito e di effetto che si ripete più volte nel cantato, via via in crescendo, fino all’esplosione corale e al finale smorzato. Il testo evoca un vago sentimento di nostalgia di amori passati in mezzo alla guerra civile dell’Irlanda del Nord, ma non è poi così profondo come altri brani dello stesso periodo, pur dotati di una melodia molto meno accattivante. Il pezzo forte del brano, comunque, rimane l’arpeggio iniziale che si ripete pressoché invariato in tutte le strofe: ricco di difficoltà per chi si dilettava al tempo con la chitarra e non aveva scoperto la tragica verità che mentre si suona gli altri si baciano…
Però quell’arpeggio lo imparai alla perfezione, anche grazie ad uno dei pochi “più di te” con un cuore e una rara umanità (purtroppo oggi scomparso per un male incurabile a soli 34 anni), che mi dedicò l’attenzione necessaria per insegnarmi quell’arpeggio.
Non che questo mi abbia reso più attraente agli occhi delle ragazze di allora, né mi abbia consentito di farmi dire “Bravo!” da quelli che mi ascoltavano (perché, come dicevo, erano solitamente intenti a pomiciare). Ma l’aver imparato un brano che era nel cuore di tutti, almeno per il periodo che fu ai vertici delle classifiche, mi ha riempito di soddisfazione e, soprattutto, mi ha dato un buon motivo per ricordare la mia adolescenza.

L’informatica, 30 anni fa: perché la banda larga non può tardare

Il mio primo computer fu un Commodore 64, come per molti ragazzi un regalo più che altro per giocare. Mio padre non solo mi permise di giocarci, ma fece in modo di permettermi di imparare ad usarlo anche per farci “altro”, comprandomi libri e manuali con cui ho imparato a programmare prima in Basic poi in Assembler: come questo sia stato possibile per un uomo per cui il massimo della tecnologia in quegli anni era un televisore in bianco e nero e una macchina da scrivere Olivetti, non riesco ancora a spiegarmelo; non riesco neanche a ricordarmi di aver insistito tanto per farmi comprare libri come questo, che non era solo un libro sul linguaggio di programmazione di quel computer ma un vero e proprio manuale di riferimento a tutto il codice macchina: ancora non riesco a spiegarmi come addirittura riuscisse a trovare quello che gli chiedevo, in una città tutto sommato piccola come Viterbo, dove le novità arrivavano con notevole ritardo.
Non c’era Internet; o meglio, forse c’era ma lo conoscevano solo in qualche laboratorio delle università americane e negli ambienti militari USA: le informazioni si trovavano in edicola e per passaparola. Il primo Vic 20 lo vidi a casa di un amico; i primi comandi Basic li imparai al liceo, negli intervalli, insieme al mio professore di Scienze che si stava appassionando all’informatica e insieme, in quarta liceo, scrivemmo un programma che calcolava i coefficienti delle ossidoriduzioni.
L’accrescimento della mia cultura informatica è nata per gioco, si è avviata per passione e poi è cresciuta all’università, per dovere: a parte i pochi corsi di informatica teorica, il linguaggio C è arrivato con il corso di Calcolatori, in contemporanea con il primo PC (1993) e alle prime sessioni davanti ad un terminale connesso a Internet, alla ricerca di informazioni a colpi di Gopher e di Archie (Google non c’era, chi se li ricorda?).
Ma fino ad allora, le informazioni su questo specifico mio interesse giravano per passa parola, così come mio fratello veniva a sapere delle novità fotografiche sulle apposite riviste o imparava qualche tecnica nuova nei circoli fotografici.
Mi domando cosa sarei ora se a suo tempo ci fosse stato internet, se la facilità nel reperire informazioni e software che c’è oggi fosse stata disponibile allora: e che saranno coloro che oggi ancora sono lontani dal poter accedere ad internet a velocità adeguata o a costi sostenibili. Perché quelle persone che vivono in zone non coperte con l’ADSL e mal o per niente servite dai servizi radiomobili 3/4G devono rimanere indietro rispetto al resto del paese, che comunque non usufruisce di servizi a larga banda paragonabili a quelli stranieri?
Per questo e altri motivi non è pensabile di procrastinare ulteriormente investimenti che permettano l’estensione della copertura dei servizi a banda larga, così come ventilato dalle ultime manovre del governo.

E’ morto Dennis Ritchie

Non ve ne fregherà niente perché non ha fatto cose cool come Steve Jobs, ma a me personalmente è come se fosse morto uno dei migliori insegnanti che ho avuto in vita mia. Studiare il linguaggio C sul suo libro scritto a quattro mani insieme a Kerningham è stato semplice e piacevole, senza contare il fatto che gli esercizi proposti su quel libro li dovevo provare su una macchina Unix (quando studiavo i pc non erano alla portata di tutti e in laboratorio all’università c’erano solo terminali Unix), che lo stesso Ritchie ha contribuito a creare.

Ora i suoi punti sono tutti uniti

Ne parlano tutti i giornali, per cui, probabilmente, l’ennesimo post sulla morte di Steve Jobs sarebbe inutile. Tuttavia mi piace ricordare alcune delle cose per le quali Steve Jobs ha tutta la mia ammirazione.

In primis, una cosa che si trova solo in qualche trafiletto sulla pletora di articoli oggi online su Steve Jobs: la Pixar. Qualcuno penserà solo agli splendidi film prodotti da questa casa, ma in effetti la Pixar è anche altro: è la software house che produce Renderman, il software di animazione digitale che rende possibili film come Wall-E, Alla ricerca di Nemo e Cars, e utilizzato anche da altre case cinematografiche. È vero, sembra riduttivo parlare solo di uno strumento, per quanto potente, ma chi realizza strumenti come questi, che permettono a loro volta di realizzare capolavori, è degno della mia massima stima.
Per inciso: Wall-E per me è uno dei migliori film di tutti i tempi, non solo tra quelli di animazione: è poesia pura, i primi 40 minuti del film sono senza una parola, eppure riescono a trasmettere un concentrato di emozioni che molti altri film interpretati da persone in carne ed ossa non riescono nemmeno ad evocare.

Tra le cose che amo ricordare legate a Steve Jobs, segue immediatamente lo spot del rientro in Apple di Steve Jobs; la voce nello spot ufficiale mandato in onda in lingua inglese era interpretato dall’attore Richard Dreyfuss: quello che segue, è la versione interpretata dallo stesso Steve Jobs, che non ha nulla da invidiare a quella ufficiale.

In Italia lo spot andato in onda sulle nostre reti televisive era interpretato da Dario Fo. Vedendo oggi le file davanti agli Apple Store al lancio di nuovi prodotti, oppure alla semplice apertura di uno di essi direi che il “Think different” oggi appare po’ appannato, ma il testo dello spot è altamente evocativo e rende perfettamente giustizia alla figura di Steve Jobs: forse è più adatto a rappresentare il cofondatore di Apple che non chi usa i prodotti Apple.
Una curiosità che forse in pochi conoscono: ingrandendo l’icona del programma TextEdit fornito con le versioni più recenti di Mac OS X, è distintamente leggibile l’inizio del testo inglese dello spot.

L'icona di TextEdit, applicazione fornita con Mac OS X

Infine, l’ultima cosa che per me è stata particolarmente importante (e da cui ho preso spunto per il titolo del post), è il discorso tenuto da Steve Jobs all’università di Stanford nel 2005, in occasione della laurea honoris causa ricevuta da quell’università.

Per chi non ha dimestichezza con l’inglese parlato, a questo link trovate la traduzione italiana di quel discorso, pubblicata da l’Espresso nel 2006. Ho trovato la metafora dei punti da unire meravigliosa e mi è stato di aiuto ripensare ad essa nei momenti di dubbio, quando ho dovuto fare delle scelte di fronte a due strade da seguire. Ma di questo discorso ne parlano veramente tutti, per cui non vi annoio oltre.