Spandau Ballet – Through The Barricades

Sentiamo dire spesso che l’adolescenza è il periodo più bello della vita, di cui spesso abbiamo ricordi meravigliosi, tanto da rendere pessimo qualsiasi altro ricordo, a confronto. Qualche responsabilità di ciò è attribuibile anche a molti film chiamati, appunto, adolescenziali, che raccontano storie di ragazzi per lo più belli, felici, allegri e spensierati, intenti a divertirsi e a correre dietro alle coetanee altrettanto belle, felici, allegre e spensierate.

Balle.

Non è per tutti così, anzi: da quel poco che ho potuto vedere dalla mia adolescenza e da quella di alcuni di quelli che mi stavano intorno, l’adolescenza si è rivelata essere un periodo terribile: affrontare lo specchio la mattina e già lì, al primo gesto della giornata, sentirsi inadeguati rispetto alla metà fortunata degli adolescenti descritti all’inizio, è una cosa che o fortifica le spalle rendendoti insensibile alle tormente che la vita ti farà soffiare inevitabilmente contro, o ti stronca per sempre iniettandoti come un virus un senso di inadeguatezza perpetua. Per non parlare poi delle paure che fino a qualche mese prima nemmeno immaginavamo potessero esistere, mentre affrontavamo battaglie coi soldatini Atlantic o costruivamo mondi con i mattoncini Lego; oppure dell’effetto disastroso di uno sguardo mancato o di vedere la ragazza che ci piaceva da impazzire andare a braccetto col figo della scuola, solitamente più grande di te, più bello di te, più disinvolto di te, e via aggiungendo aggettivi a piacere ma rigorosamente “più di te”. Ancora adesso, parlando di quei tempi, preferisco usare la prima persona plurale, non per una correttezza formale nello scrivere o un plurale majestatis del tutto ingiustificato, quanto piuttosto per un sentirsi gruppo insieme a tanti altri sfigati come me, per affrontare meglio quell’orribile periodo della vita.
Non sono un sociologo né ho particolari nozioni di psicologia, per cui parlerò della mia adolescenza, e di quanto poco ho potuto apprezzarla. Facciamola corta: ero brutto, piuttosto impacciato e considerato il secchione della classe solo per la mia attitudine a fare i calcoli velocemente e senza penna; portavo degli occhiali con teglie in triplo fondo pirex al posto delle lenti; essendo di peluria scura (nonché caduca, scoprirò poi) e ancora poco avvezzo al rasoio, avevo sempre un paio di baffi sotto il naso abbastanza ben percettibile. Il confronto con i “più di te” sopra citati era impietoso, sempre, in ogni situazione e in ogni momento: e non c’era possibilità che l’essere il primo della classe potesse in qualche modo farmi risalire la china, se non nei brevissimi istanti che seguivano la distribuzione della versione di latino o del problema di matematica nei compiti in classe, salvo poi far svanire il magico effetto al termine degli stessi compiti in classe.
Ma c’era una cosa che mi faceva sentire pari o addirittura superiore (ovviamente senza un valido motivo per esserlo, ma bastava l’impressione) a tutti quei “più di te”, e che nessuno avrebbe potuto togliermi: la musica. Come tutti gli altri, compresi i “più di te”, sentivo la stessa musica, amavo gli stessi gruppi musicali, leggevo gli stessi testi oppure cercavo di imparare gli stessi accordi. A risentirla ora, quella musica farcita di suoni elettronici primordiali e così ormai demodé, mi viene un misto di tenerezza e ribrezzo non facilmente descrivibile, perché il bel ricordo di questa o quella canzone inevitabilmente sono legati a momenti di confronto inevitabilmente in perdita con quei “più di te”, ma rievocano anche i momenti di riscatto interiore, insieme al piacere quasi fisico che si provava ascoltandone alcune.
Un breve excursus storico, diciamo così: circa a metà degli anni ottanta, due erano i main stream dei gusti adolescenziali: i Duran Duran, apprezzati principalmente dalle ragazze per via dell’avvenenza quasi femminea dei tre quinti della band: Simon Le Bon, John Taylor e Nick Rhodes (gli altri due, Andy e Roger Taylor, nessuno li ha mai cagati in realtà, e quando sono stati sostituiti da Warren Cuccurullo e Nile Rodgers nessuno se n’è nemmeno accorto); e gli Spandau Ballet, dal seguito meno variegato e leggermente più snob: eh sì, perché gran parte dei fan dei Duran Duran appartenevano al movimento modaiolo dei paninari, tamarri ante litteram stereotipati dalle scarpe fino al berretto: zatterone Timberland, jeans Levi’s 501 strappati sulle ginocchia, maglie a scelta ma inevitabilmente sovrastata da piumino Moncler, possibilmente con braccia rimovibili. Gli Spandau Ballet, invece, si presentavano più sobri (eccetto forse per i ciuffi del cantante), eleganti, pettinati e senza mascara negli occhi; inoltre facevano un pop più morbido e di più facile ascolto dei Duran Duran, e i loro seguaci erano assolutamente anonimi.
Ovviamente fui sfigato anche nella scelta del gruppo preferito: c’è da dire che seguivo più i gruppi dei dischi lasciatimi in eredità di mio fratello, quindi ero indietro di una buona decina di anni ascoltando i primi Genesis e i Pink Floyd, ma nella scelta del gruppo di cui parlare con i miei coetanei scelsi i meno seguiti, cioè gli Spandau Ballet: che ovviamente vendevano meno, erano meno ascoltati dalle ragazze e di cui si parlava meno. Insomma mi ero auto emarginato.
Però avvenne un miracolo: mentre il paninaro impazzava al ritmo di “Wild Boys”, gli Spandau Ballet tirarono fuori il loro pezzo migliore; era il 1986, e “Through The Barricades” fece presto a diventare l’hit single del momento, scalzando il brano dei Duran Duran dai vertici delle classifiche. Non che non abbiano fatto altri brani validi (come ad esempio “I’ll Fly For You” o “Gold”, oppure “Only When You Leave”), ma con questo fecero proprio il botto: e il botto fu tanto forte che dopo l’album che includeva il brano, non riuscirono più a riprendersi: solo una recentissima reunion li ha riportati alla ribalta, facendo ironizzare molti commentatori sulla forma fisica di Tony Hadley, il loro cantante: dal duo de “Il Ruggito del Coniglio”, a riguardo, ho sentito la battuta migliore: “Gli Spandau Ballet ora sono in quattro, il quinto se l’è mangiato il cantante…”
Il brano è indubbiamente gradevole, una ballata melodica con un arpeggio di chitarra pulito e di effetto che si ripete più volte nel cantato, via via in crescendo, fino all’esplosione corale e al finale smorzato. Il testo evoca un vago sentimento di nostalgia di amori passati in mezzo alla guerra civile dell’Irlanda del Nord, ma non è poi così profondo come altri brani dello stesso periodo, pur dotati di una melodia molto meno accattivante. Il pezzo forte del brano, comunque, rimane l’arpeggio iniziale che si ripete pressoché invariato in tutte le strofe: ricco di difficoltà per chi si dilettava al tempo con la chitarra e non aveva scoperto la tragica verità che mentre si suona gli altri si baciano…
Però quell’arpeggio lo imparai alla perfezione, anche grazie ad uno dei pochi “più di te” con un cuore e una rara umanità (purtroppo oggi scomparso per un male incurabile a soli 34 anni), che mi dedicò l’attenzione necessaria per insegnarmi quell’arpeggio.
Non che questo mi abbia reso più attraente agli occhi delle ragazze di allora, né mi abbia consentito di farmi dire “Bravo!” da quelli che mi ascoltavano (perché, come dicevo, erano solitamente intenti a pomiciare). Ma l’aver imparato un brano che era nel cuore di tutti, almeno per il periodo che fu ai vertici delle classifiche, mi ha riempito di soddisfazione e, soprattutto, mi ha dato un buon motivo per ricordare la mia adolescenza.

One thought on “Spandau Ballet – Through The Barricades

  1. E aggiungerei: pazienza se non sei sembrato più attraente agli occhi delle ragazze di allora, mi sembra tu abbia ampiamente recuperato con la ragazza dei giorni nostri ;)good luck!

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